Il castello di Barbablù – De Temporum Fine Comoedia

Il castello di Barbablù
BÉLA BARTÓK
Opera in one act, op. 11 Sz. 48 (1918)
Libretto: Béla Balázs

De Temporum Fine Comoedia
CARL ORFF
Original version 1973
Libretto: Carl Orff
con passaggi da Gli Oracoli Sibillini e da Gli Inni Orfici

TEAM ARTISTICO
Direttore: Teodor Currentzis
Regia, scene, luci e costumi: Romeo Castellucci
Coreografia: Cindy Van Acker
Dramaturg: Piersandra Di Matteo

Costumista associata: Theresa Wilson
Assistente alla regia: Maxi Menja Lehmann
Assistente scenografo: Alessio Valmori
Light Designer associato: Marco Giusti


CAST - Il Castello di Barbablù
Duca Barbablù: Mika Kares
Judith: Ausrine Stundyte


CAST - De Temporum Fine Comoedia
Soprano: Nadezhda Pavlova
Contralto: Helena Rasker
Jurgita Adamonyte, Taxiarchoula Kanati,
Gero Nievelstein, Christian Reiner,
Irini Tsirakidis, and others


ENSEMBLES
Gustav Mahler Jugendorchester
MusicAeterna Choir
Maestro di Coro: Vitaly Polonsky

Bachchor Salzburg
Maestro di Coro: Benjamin Hartmann

Salzburger Festspiele und Theater Kinderchor
Maestro di Coro: Wolfgang Götz


Produzione: Salzburger Festspiele
in partnership con GES-2 House of Culture

26, 31 Luglio / 2, 6, 15, 20 Agosto – Felsenreitschule

Romeo Castellucci e Teodor Currentzis tornano a Salisburgo con un programma insolito: Il castello di Barbablù di Béla Bartók abbinato a De temporum Fine Comoedia di Carl Orff, due opere che formalmente sembrano completamente opposte.

Il culmine del teatro musicale dell’inizio del XX secolo, Il castello di Barbablù è stato composto su testo di Béla Balázs nel 1911. La storia di Barbablù ha il suo archetipo letterario nelle fiabe di Charles Perrault e racconta di un uxoricida che proibisce alla sua ultima moglie, spinta dalla curiosità, di aprire una porta dietro la quale ha nascosto le sue precedenti vittime.
L’opera di Bartók si sviluppa interamente dal dialogo tra i due protagonisti, Barbablù e Judith, rivelando un approccio al dramma come una sorta di campo di forza spirituale ed emotiva.
‘Dov’è il palcoscenico: fuori o dentro?’, come recita il prologo, un invito al pubblico a porsi domande sulla natura enigmatica del teatro come allusivo riverbero del reale.

Judith ha lasciato i suoi genitori e l’uomo che l’amava per essere la moglie di Barbablù.
Lui la conduce nel suo oscuro castello senza finestre – una dimora di pietra, ma allo stesso tempo uno spazio senziente che piange, trema e geme, e che ha sette porte chiuse a chiave.
La giovane moglie vuole sapere cosa contengono le camere proibite, desiderando riempirle di luce e calore. Sebbene Barbablù cerchi di dissuaderla, Judith chiede le chiavi e apre una porta dopo l’altra: lì vede strumenti di tortura, armi, tesori, gioielli, un giardino – e ovunque scopre allarmanti tracce di sangue.
La settima porta rivela finalmente le precedenti mogli di Barbablù, vestite con abiti lussuosi: le mogli dell’Alba, Mezzogiorno e Crepuscolo.
Decorata con gioielli e avvolta in un mantello di stelle, Judith diventa la moglie della Notte.
L’azione concentrata, la mancanza di coordinate spazio-temporali e l’atmosfera misteriosa indicano un viaggio che si svolge interamente all’interno.

Al contrario, il soggetto del De temporum fine comoedia è il Giudizio Universale, in una reinterpretazione radicata nelle convinzioni religiose personali di Carl Orff.
La stesura del testo in greco antico, latino e tedesco richiese al compositore un intero decennio, dal 1960 al 1970, con l’essenza dell’opera sempre più determinata dalla visione apocalittica del teologo alessandrino Origene, secondo cui alla fine dei tempi anche ai demoni saranno concessi il perdono e la salvezza.

Nella prima parte della Comoedia nove Sibille annunciano l’imminente fine del mondo e la dannazione eterna degli empi.
Nella seconda parte queste profezie sono contrastate da un enfatico “no” di nove anacoreti: i dotti eremiti hanno capito che l’ultimo giorno sorgerà non come il trionfo di un Dio punitivo ma come l’assorbimento del male nel divino.
La redenzione di tutti i torti e il ritorno di tutti gli esseri a Dio raggiunge il suo culmine nella terza parte, ovvero nella ri-trasformazione di Lucifero nel “portatore di luce” che era un tempo.
L’angelo caduto esprime la sua richiesta di perdono con le parole della parabola del figliol prodigo: “Pater peccavi”.

Portato sul palco del Festival da Romeo Castellucci e Teodor Currentzis per la prima volta dalla sua prima a Salisburgo nel 1973, l’opera-oratorio di Orff travolge l’ascoltatore con la sua energia primordiale. Quest’ultimo deriva soprattutto da schemi ritmici costantemente reiterati che coinvolgono una miriade di figure, animate da un principio meccanico di movimento che sarà tradotto in partiture di movimenti corporei dalla coreografa Cindy Van Acker.
L’atmosfera che permea il castello di Barbablù è diametralmente opposta: Castellucci risponde alla cupa intimità di un dramma senza azione esterna concentrandosi sul punto di vista di Giuditta e su un trauma che scatena un teatro della psiche.

Nascosti nell’accostamento delle due opere, tra interiorità ed esplosione di potere violento, si nascondono legami profondi, come se per Giuditta fosse arrivato il Giorno del Giudizio, come se lei stessa avesse commesso un delitto…

 

Piersandra Di Matteo

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