Bérénice
di Romeo Castellucci
liberamente ispirato a “Bérénice” di Jean Racine
Un monologo
Con Isabelle Huppert
E con la partecipazione di Cheikh Kébé e Giovanni Manzo
E la presenza di dodici persone locali
Concezione e regia di Romeo Castellucci
Musica originale di Scott Gibbons
Costumi di Iris Van Herpen
Assistenza alla regia - Silvano Voltolina
Cura dei movimenti corali – Silvano Voltolina
Direzione tecnica - Eugenio Resta
Tecnici di palco - Andrei Benchea e Stefano Valandro
Tecnico luci - Andrea Sanson
Tecnico del suono - Claudio Tortorici
Costumista - Chiara Venturini
Ideazione trucco e acconciatura - Sylvie Cailler et Jocelyne Milazzo
Sculture di scena e automazioni - Plastikart Studio Amoroso & Zimmermann
Direttori di produzione - Benedetta Briglia, Marko Rankov
Produzione e Tour - Giulia Colla
Organizzazione - Bruno Jacob, Leslie Perrin, Caterina Soranzo
Contributo alla produzione - Gilda Biasini
Equipe tecnica in sede - Lorenzo Camera, Carmen Castellucci,
Francesca Di Serio, Gionni Gardini
Stagista costumista – Madeleine Tessier
Répétitrice movimenti – Serena Dibiase
Répétitrice memoria – Agathe Vidal
Amministrazione - Michela Medri, Elisa Bruno, Simona Barducci
Consulenza economica - Massimiliano Coli
Produttori esecutivi
Societas, Cesena
Printemps des Comédiens / Cité du Théâtre Domaine d’O, Montpellier
Co-produttori
Théâtre de La Ville Paris - France; Comédie de Genève, Switzerland; Ruhrtriennale, Germany; Les Théâtres de la Ville de Luxembourg; deSingel International Arts Center, Belgium; Festival Temporada Alta, Spain; Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Italy; Onassis Culture - Athens, Greece; Triennale Milano, Italy; National Taichung Theater, Taiwan; Holland Festival, Netherlands; LAC Lugano Arte e Cultura, Switzerland; TAP - Théâtre Auditorium de Poitiers, France; La Comédie de Clermont-Ferrand – Scène Nationale, France; Théâtre national de Bretagne – Rennes, France; Yanghua Theatre, China.
E con il supporto della Fondation d’entreprise Hermès
Foto "red liliim" di Tine Poppe
Foto di scena di Alex Majoli
L’assoluta inattualità dei versi poetici di Racine, basati sul metro alessandrino, è ciò che lo rende contemporaneo. La disfunzione del linguaggio che oggi conosciamo è quella di Beckett, quella di Artaud, quella dei poeti, ma il nostro Poeta annulla il linguaggio per eccesso tecnico, ne forza la forma al punto che non c’è niente che valga a essere soltanto comunicato. Grazie alla costrizione del metro e della rima, Racine affida alla tecnica il compito di captare il significato. E confida più sulla pura forma della parola che sul suo contenuto, e la forma è ciò che resta del corpo, un corpo muto. I dodecasillabi sono qui gli strumenti del rabdomante che hanno il compito di estrarre il significato, un significato che proviene soltanto dall’esterno, dall’estraneo e non dalla semplice opinione, e non da un sapere a portata di mano. Ecco che, con Racine, la tecnica diviene l’arcana serra di fiori inauditi, perché non partoriti per via naturale.
In Bérénice il personaggio appare veramente soltanto al momento dell’uscita. L’uscita di scena, come un Trionfo, è terribilmente più importante dell’entrata. Cos’altro è “Berenice” se non una lunga, estenuata strategia di uscita? Occorre tutta un’arte della retorica, un’iconografia, un impossibile ricorso cristiano alla tragedia greca, per concepire un simile principio di movimento. Tutti i personaggi alla fine della tragedia si salutano senza versare una sola goccia di sangue; l’emorragia è interna. Ma anche io, spettatore, alla fine dello spettacolo – o della lettura – rimango senza parole. Dov’è il dramma? L’ho percepito ad ogni passo, ad ogni istante, ma non posso dire di avervi assistito.
Tutte le pose, la castità, l’educazione, il pudore, l’amore che ama – e per questo abbandona – servono qui a rappresentare il Teatro della Crudeltà dell’amore. Amore come Oriente, come Terra della Speranza. La castità come forma suprema di morbosità. Tutto è trattenuto e rallentato; in una parola, il campo del desiderio si apre davanti a noi in tutta la devastante virulenza del suo teatro. Le rinunce qui hanno più peso delle azioni, del sangue o degli accoppiamenti. Teatro paralitico. Oggetto unico: non credo esista nella drammaturgia occidentale di tutti i tempi qualcosa di più statico e snervante. Eppure si piange.
La parola diviene concentrica, come i fumi della droga, i dialoghi sono in realtà monologhi febbrili. “Bérénice” è un testo che non dice niente, e questo è la sua oblazione, la sua – in fondo – follia, la sua “arte-contemporanea”.
In scena, come stella fissa, Isabelle Huppert rappresenta Bérénice, la peculiare e ontologica solitudine del personaggio teatrale e della figura umana. Saranno presenti soltanto altri due attori, nelle vesti di Titus e Antiochus e diversi Senatori romani. Tutte le loro parole saranno incomprensibili, e impastate dalla stessa voce di Bérénice. I suoni dello spettacolo – tutti, uditi e inauditi – sono generati dalla voce di Isabelle Huppert ed elaborati dall’artista Scott Gibbons.
Isabelle Huppert è la sineddoche dell’arte del teatro d’occidente, è l’attrice, ma anche l’attore, per definizione. Isabelle Huppert è “rappresentazione in quanto tale” ( vado a teatro per vedere Isabelle Huppert fare Berenice ), è fiamma che chiama a raccolta. È Teatro.