Nuvole.Casa.

di Elfriede Jelinek
traduzione Luigi Reitani
di e con Chiara Guidi

musiche di Daniele Roccato
eseguite al contrabbasso dall’autore
e con la partecipazione di Filippo Zimmermann

produzione Societas e Festival Focus Jelinek

immagine di Claudio Parmiggiani
Senza titolo, 2009, fuliggine su tavola

 

Nuvole.Casa rientra nel progetto favole del potere – elfriede jelinek nelle biblioteche – nato dal confronto tra Chiara Guidi e Elena Di Gioia – e appositamente creato per il Festival Focus Jelinek.
In Nuvole.Casa le parole si accumulano, strati su strati, come mattoni per la costruzione di una casa. Sono parole di altri, tratte da Hölderlin, Heidegger, Fichte, Kleist e da lettere della RAF del 1973-1977 che la scrittrice prende, solleva e sposta dal libro nel quale si trovano per collocarle nel suo libro. Se ne serve per dire altro rispetto a ciò che si legge, lasciandone aperta la decifrazione che non può accontentarsi di sapere da dove quelle parole provengono.
È un libro di difficile lettura.
Il principio compositivo resta oscuro e le frasi dense di significato ma, estrapolate dal loro contesto, non rimandano ad alcuna spiegazione. Possiamo ascoltare, non capire, e se si ascolta pare di udire una voce sotterranea, grave come il suono di un contrabbasso, che tiene unito l’intero corpo dell’opera.
Jelinek entra nel linguaggio come se entrasse in una casa e lì, provocatoriamente, eleva un inno al sacro suolo tedesco e ribadisce quel ‘noi’ che ricorre insistentemente come un metronomo, scandendo i flussi e riflussi della storia e dell’umanità.
Nuvole.Casa è una favola del potere. Ne conosciamo le vittime, gli orrori dettati dall’emblema dell’atroce ‘purezza’, ancor prima di leggere il libro. La storia ci è nota a priori. Eppure, nel libro della Jelinek ciò che conosciamo prende la forma di un enigma che è la promessa di un mutamento.
Per scrivere il suo libro Jelinek strappa le pagine di alcuni libri e le affida al ritmo della composizione. Strappa anche la parola che forma il titolo che originariamente indica il “Paese della cuccagna”: Wolkenkuckucksheim. Ne esclude una parte: kuckuck che significa cuculo, mentre la prima parte e l’ultima significano rispettivamente nuvole e casa.
Un Wolkenkuckucksheim è il luogo della fantasia, ma nuvole e casa senza il cuculo non si armonizzano e restano in tensione.
In questa tensione c’è l’attesa di una promessa: la bellezza di un mondo ideale che l’arte cerca sia rielaborando ciò che è realmente accaduto, sia riconsegnandolo alla forza concreta del presente attraverso la disarticolazione di parole e gesti della memoria.

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