Flatlandia

lettura drammatica e musicale
di Chiara Guidi
dall’omonimo racconto fantastico a più dimensioni,
pubblicato anonimamente nel 1882
scritto da Edwin Abbott Abbott (1838–1926)
tradotto da Masolino D’Amico

cura del suono Marco Olivieri
organizzazione Stefania Lora
produzione Societas

foto Nicolò Cecchella

 

La figura geometrica di un quadrato incontra una sfera e intuisce, con sospetto, che possa esistere un mondo a tre dimensioni: alieno, inestricabile, inconcepibile. Tutto il racconto appartiene interamente a una terra piatta, e con perfetta coerenza descrive l’ambiente e la vita di esseri schiacciati che neanche immaginano un’altra dimensione. Il linguaggio ritrae un mondo complesso, formato da un meccanismo coerente che diventa oggetto di conoscenza: il mondo del piatto. L’assurdità di un mondo mai considerato, se non astrattamente, perché ritenuto monco, anzi impraticabile, è assorbita nella lucidità di una scrittura che descrive la realtà a due dimensioni. Così la pagina della scrittura, il suo spazio, la sua rappresentazione grafica, diventano letteralmente il mondo. La pagina del mondo.

La follia di questa idea è compensata dalla precisione logica della scrittura. L’ordine delle cose è descritto attraverso un apparato ottico bidimensionale da insetto o da batterio, che smantella in blocco la consueta certezza delle tre dimensioni della terra con le sue leggi.

Se la curiosità scientifica si concentra piuttosto intorno all’idea della quarta dimensione, Abbott indica lo straniamento dello spazio euclideo attraverso lo sgomento della seconda dimensione. La sua invenzione consiste in un’azione retrograda dello sguardo, che apre il portale delle percezioni su una via sottrattiva, imponendo un’idea poco più che astratta della corporeità. Questa “mancanza”, questo disconoscimento della più elementare delle leggi della fisica innesca in realtà una conoscenza parallela che corre radente sulla superficie delle cose, e che appiattisce il pensiero per ritrovarlo al di fuori, al di là, della sfera umana. Non ci sono uomini in questo mondo. Ci sono punti, linee e piani, intensità e tensioni superficiali. C’è un puro spazio piatto, disumanizzato con acribia e metodo geometrico. È uno spazio del progetto, della mente. Una mente, si direbbe, amputata e schiacciata dal rullo compressore. Una mente che, per questa stessa ragione, è in grado di sviluppare l’ottica sapienziale della visione. Visione rotativa e tomografia assiale dello sguardo. Sta a noi, persone umane, incredibilmente dotate di corpo (già, che cos’è un corpo?), capire la sospensione metafisica di quel momento in cui una sfera “cala” dall’alto per intersecarsi con il piano. Dobbiamo farlo, però, immaginandoci piatti, come figure ritagliate nella carta. Solo così si apre la visione: immaginarsi un mondo che non esiste, in questo mondo. Nel mondo di Flatlandia questo mondo non esiste. Siamo noi l’al di là. Siamo noi le “sfere”. E l’assurda affermazione di un mondo reale soltanto sulla carta fa sospettare che forse è il mondo dei corpi a essere davvero alieno. Il valore di questo paradosso consiste alla fine proprio in questo: non c’era nessuna ragione valida per farlo. Ma per farlo è occorso il massimo della ragione. Tutto questo è uno specchio.

 

 

 

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